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Falling slowly (Il ragazzo)

immagine appartenente al rispettivo autore

C’era una volta un ragazzo.

Guardava il cielo immaginando uno spazio infinito. Riusciva a percepire la presenza di ogni pianeta nel raggio di cinquecento anni luce. Quando lui guardava il cielo, ogni costellazione, ogni galassia, rispondeva al suo sguardo e gli diceva che andava bene.

E per lui andava davvero bene.

Il ragazzo non era speciale. Non aveva superpoteri, non vedeva il futuro, non parlava con i morti. Ma nel suo piccolo, era magico.

Quando ascoltava una canzone bella si emozionava, come molti fanno, ma non cercava mai nel testo della canzone di uno sconosciuto i significati alla propria vita. Non guardava la tv sperando di vivere qualcosa che non potesse vivere davvero. Non spengeva la luce della camera immaginando che domani sarebbe stato un mondo migliore.

Era fatto così. Per lui c’era il cielo, il vento e la musica.

Quando suonava il pianoforte poggiava le proprie dita sulle note, delicatamente le sfiorava e componeva sempre melodie diverse. A volte insensate e piene di errori, altre bellissime.

Poi, finita la fase musicale, guardava il cielo.

Di giorno c’era solo il sole, ma la notte, in quel palazzo di periferia, si poteva vedere l’universo.

E così contava le stelle.

C’era una volta un ragazzo che credeva sarebbe stato possibile cambiare, ma che non cambiò mai. A volte il bisogno di cambiare è un riflesso, altre una vera necessità. Il problema per tutti era capire in quale caso eravamo. Credeva in tante cose, immaginava mondi fantastici, e se chiudeva gli occhi sapeva che il mondo sarebbe stato diverso. Di certo migliore.

E vedeva una strada, quella strada che ti porta al futuro che desideri.

Ci camminava sempre, ma camminarci non significa che vada tutto bene, come nella vita.

Sapeva, era cosciente, che nella vita non esistono strade dritte, che devi aspettarti una curva, un incidente, una notte dove non vorrai sentire nessuno, dove tutto questo mondo sarà un’unica cassa di rumore e tu sarai quel suono dissonante fuori posto.

E nei momenti più bui sapeva che poteva contare su se stesso, ma che non era la solitudine la soluzione a tutto. Che non era un supereroe.

Per questo, alle volte, i cellulari dei suoi amici squillavano in piena notte. E lui diceva in maniera dolce “Dovrei parlare”.

Non “Aiutami”. Era il suo modo. In parte originale, in parte schivo, di dire che aveva bisogno di loro.

E allora loro ascoltavano, ascoltavano sempre tutte le sue parole.

Quando era un amore, quando un amico.

A volte nessuno rispondeva, e lui rimaneva interdetto con un dolore al cuore così grande da spaccare in due il vento. Ma non era sempre così, ogni tanto qualcuno rispondeva, assonnato, e diceva “Pronto”

“Dovrei parlare”

E la migliore frase che lui ricordò di aver sentito fu “Ci sono“.

E parlava parlava parlava. Come un fiume in piena diceva tutto.

Dall’inizio alla fine affrontava quel dolore, senza cercare tutte le spiegazioni che non sempre avrebbe potuto trovare.

Per gli amici era sempre una cosa strana quando telefonava.

Alzavano la cornetta nei momenti più disparati, e poi, quando gli avevano detto che era tutto ok, lui iniziava, sempre con quella frase

“C’era una volta”

Andrea (sdl)

Di Andrea Grassi

Scrittore, programmatore di siti web. Appassionato da sempre di ogni forma di scrittura (copywriting, marketing, romanzi). Vivo a Montevarchi e non me ne pento.

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