L’attesa di fronte al semaforo, guardando le immobili strisce pedonali che attendono ogni nostro passo.
Il vuoto prima che arrivi il nostro turno, tra un numero e l’altro, alla posta, nel silenzio tra mille voci diverse, ognuna con i suoi pensieri e la sua vita che come un fiume in piena corre via.
Oggi queste attese sembrano più pesanti che mai, come se lo spazio tra di esse fosse diventato insopportabile, come se attendere fosse un problema. Come se il vuoto, che da sempre è esistito, sia oggi un coinquilino scomodo, che non vogliamo vedere, né sentire.
Subito, deve succedere subito. E se non succede dobbiamo per forza avere qualcosa da fare, per agire, per ottenere qualcosa in cambio endorfine, gioia, tristezza, eccitazione, quel vuoto non può essere solo vuoto, deve avere uno scopo o soddisfarci.
Come se fossimo in controllo di una direzione, anche se poi la direzione di ciò che vediamo ed ascoltiamo, dei video di sconosciuti dall’altra parte del mondo, dipendono da altri, algoritmi che ricordano la forma della nostra fame, algoritmi dai colori dei nostri desideri.
Cos’è che ci spaventa di quel vuoto? Di quel silenzio che ci accoglie quando siamo soli e il mondo si muove intorno a noi, con le persone che camminano parlano pensano e agiscono, ognuna con un mondo, un cuore spezzato, una paura di essere vista ed accettata, con quell’urlo nascosto sotto pelle che vorrebbe solo un abbraccio ma alla fine è più semplice scorrere un’altra notizia cruda, un’altro reel divertente, un’altra foto eccitante.
Così che quel vuoto non esista, così che quel momento dove siamo interamente soli, con noi stessi, costretti ad essere nel mondo, venga annientato. E tutto sia un continuo scorrere, un Panta Rei senza però coscienza di esso, senza presenza, fluendo coccolati da un fiume che non abbiamo scelto, a guardare un cielo i cui colori non riconosciamo.
Non so se valga per tutti, so che a volte in quel vuoto e in quel silenzio ho paura di sentire tutto. Tutta la complessità del mondo e dei miei sentimenti che straboccano e si confondono, impedendomi di capire cosa succede. Odio gioia, paura emozione, affetto, solitudine, i cui confini scompaiono e diventano un’orchestra rumorosa e potente il cui suono mi parla dal profondo ma le cui parole non comprendo.
Ed è sempre forte la tentazione di scorrere di nuovo, di abbassare la testa e guardare un’altra storia, leggere un’altra news, guardare un altro video.
Perdermi, non sentire, non ascoltare, non essere lì, in quel momento.
Eppure ricordo.
Ricordo me, in attesa sul divano ruvido della casa ed il profumo della schiacciata nel forno che con l’olio prendeva forma e sapore, e com’era dolce quell’attesa.
Ricordo l’attesa di una visita di un amico, e come quel vuoto era pieno di energia ed emozione infinita, di trepidazione ed ansia.
Ricordo di guardare le luci della strada nelle sere d’inverno, con il mio alito che appannava il vetro, guardando i fari come se potessi distinguere quelli dell’auto di mia madre, e attendere, contandoli, e poi abbracciarla di corsa e sentire il profumo fresco dell’inverno unito all’odore del fumo addosso al lungo cappotto scuro.
Da quando questi vuoti han perso le emozioni che accompagnano ogni attesa? La trepidazione per ciò che succederà, quell’energia in potenza che ci ricorda che tutto può ancora succedere e che quel vuoto è solo il preludio di un altro, bellissimo, nuovo inizio?
Lo spazio tra le cose è sempre quello, il vuoto e le sue molecole non sono cambiate, ma noi, noi si.









