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Tutti zitti (Don’t Let it be, reprise)

(questo come altri è un racconto che si avvale della licenza dell’intero sito. se lo distribuite vi prego di renderne nota la provenienza e di non modificarlo o usarlo per scopi commerciali)

“Silenzio in sala grazie. Ringraziamo il signore per ciò che ci è stato dato e stiamo tutti in contemplazione. Un pò di silenzio è richiesto soprattutto alle ultime file che come al solito tenteranno di chiacchierare ininterrottamente.
E’ un momento difficile signori.”
Il prete si alza dalla sedia, per la prima volta in cinquant’anni.
“E’ un momento complicato. Le sensazioni mi si confondono dentro quando vedo tutto questo. Signori.”
Brusio. Voci che si toccano per aria e poi ricadono a terra in un silenzio contemplativo.
La mano del cardinale tocca ad un tratto un libro posato sulla sedia vuota accanto a lui. Chi è tra le prime file potrebbe, se volesse, notare un tremolio sulle dita. Un tremore non dettato dalla vecchiaia (il vecchio si conserva davvero bene con i suoi settant’anni), ma dal dolore dell’assenza, come se qualcosa di irreparabile sia successo di fronte a loro, proprio ora.
“Voi, dell’ultima fila, avvicinatevi. Ragazzi, non è il momento di far rumore, non adesso. Venite qua”.
Interdetti dall’originale richiesta i soliti otto ragazzi dell’ultima fila si alzano in piedi.
In ordine di comparsa possiamo vedere Tom detto Jones, quello che alle feste è il più divertente il più fico, il più tutto, a detta di alcuni. Alla sua sinistra Janet, l’eterna fidanzata. Girano voci sulla dubbia fedeltà sia di lui che di lei, ma a dirla tutta nessuno in quella sala saprebbe dirvi con certezza se e cosa sia vera.
Nella compagine possiamo poi trovare i fratelli Kay, detti i Tremors. Cinque cambi di scuola in cinque anni. Pare che vogliano comparire nel guinness dei primati, ma Rihanna dice che al più potranno comparire nel guinness dei cretini.
Ed eccola lì anche lei, la contesa Rihanna. Cinquanta lettere sotto il letto, cinquanta no detti a voce, il solito corpo che tutti i ragazzi (e qualche ragazza) si sognano la notte, il solito volto di cui non puoi non innamorarti.
Ed infatti ecco la lettera numero 51. Lo chiameremo Sanders, perchè nemmeno lui sa il suo nome. Orfano tra i tanti ha nella tasca destra dei jeans sgualciti la lettera. Dopo la messa voleva confessarsi, ma non certo al prete.
Accanto a Sanders troviamo la sorellina di Rihanna, Sonia. Piccola ed acerba. Segna sul muro di camera con delle tacche il numero di persone trattate male. Ha smesso ovviamente di contare i rimproveri. Erano troppi. Potrebbe avere anche lei le sue cinquanta lettere sotto il letto, se lo volesse. I suoi capelli nero pece, i suoi occhi così dannatamente verdi la renderebbero forse più bella della sorella. Ma l’attitudine è davvero insopportabile. 
Ultimi in ordine di apparizione i comici Alex e Fray. Non esiste persona al mondo che non abbia riso di fronte a loro. Una volta all’anno organizzano un’intera giornata di scherzi. La JokeFunkyPartyDay. Volevano aumentare il numero di parole ma non faceva ridere purtroppo.

Eccoli lì, tutti ed otto, disposti l’uno a fianco dell’altro. Tom che stringe la mano di Janet (e qualcuno di fronte a loro guardandoli sta proprio pensando se sia finzione o verità). Altri occhi si disperdono su Rihanna, mentre i Tremors stanno ticchettando in maniera piuttosto fastidiosa con le scarpe nuove di zecca.
“Questa proprio non ci voleva. Se ci fanno ora una partaccia confessarsi a Rihanna sarà impossibile”, pensa Sanders. E mentre imbambolato la cerca con la coda dell’occhio uno dei tremors ruba velocemente la sua lettera e se la mette in tasca lui. Numero 51 pare davvero sfortunato.

“Venite ragazzi. Oggi dovrete porgere più rispetto in questa stanza”.
Punizione esemplare, e stavolta non ne può fuggire nessuno. Il prete alza la mano verso gli otto e la muove come a dire “Su, tanto vi tocca venire qua. Poche storie”.
Qualche sguardo si intreccia tra i poveri malcapitati. Poi è Tom che fa la prima mossa. In un silenzio quasi di tomba (ironia della sorte) si muove tra le file della chiesa. Mentre passano gli otto ragazzi ognuna delle persone sedute li guarda, li osserva. Vedono i loro dettagli in maniera tremendamente tragica.
“Guardalo, poveretto, i pantaloni rotti”
“Ma si ameranno davvero? Che tipi falsi”
“Anche lei? La bellissima? Guardala come si è ridotta. E’ proprio vero il detto”
“Stavolta non hanno nulla da ridere neanche loro”
sono pensieri su pensieri che per fortuna i ragazzi non riescono a sentire mentre attraversano il pavimento marmato della chiesa. Il sole fuori fa cadere una lancia di luce nella chiesa. 
E mentre si sentono gli ultimi passi i ragazzi sono lì. In fila di nuovo ma davanti al prete.
Il prete li scorge e li guarda
“Ragazzi, figlioli, il signore vi guarda sempre dall’alto. Guarda le vostre azioni, e dovrebbe guidarvi. 
Ora ditemi, se con una situazione così tragica, così triste…”
alcune persone, dietro di loro, si stringono. Molte mani sono quasi aggrappate alle ginocchia su cui son poggiate. C’è dolore, dolore palpabile nella chiesa. La morte del Panettiere non doveva proprio succedere. Non ora nè mai.
Eppure era lì. La bara aperta, con le ferite nascoste dai vestiti, la morte ingloriosa per amore, per le vite di altri. Una persona che aveva sacrificato se stessa in nome di qualcos’altro. Era un credente, ma non un grande praticante. Eppure aveva trovato quella sua strada per far del bene. Jonathan the Breadman. L’uomo del pane.
Aveva toccato il cuore di molti, e se ora qualche lacrima veniva giù sulle lacrime dei partecipanti non c’era da stupirsi.
“…voi non vi sentite in dovere di concedere un attimo, anche un solo minuto di silenzio a questo uomo? Guardatemi, guardatelo, e guardate nei vostri cuori figli di Dio, e ditemi cosa vedete”

Non che il prete avesse detto qualcosa di sbagliato. Era normale e per giunta perfettamente comprensibile. 
Eppure qualcosa di magico successe. Come in ogni rivolta, una voce si alzò tra le altre, e da lì molti lo seguirono.
Numero 51, Sanders, guardò stupefatto il prete. 
“Padre, io non ci stò.”
il primo passo della rivoluzione che fu, nacque così. con un “Non ci stò”.
Parve alzarsi come una brezza il brusio da tutta la chiesa. Il cardinale, ancora seduto là, non cercava più il contatto sacrale con quel libro, ma ora guardava interessato la contesa, non senza dolore.
“Non ci sto padre” ripetè
“Il silenzio, il dolore, e tutto questo. Non mi va bene. Non dobbiamo considerare il dolore una cosa da commiserare, da ignorare, da lasciar passare come un ignoto accanto a noi. Non può essere così. Non deve essere così.”
Mentre parlava Sanders non si rese conto che la sua cerchia di amici aveva smesso di essere in fila ma bensì lo stava quasi “proteggendo”, sostenendolo con la loro presenza. I petti in fuori, il volto fiero, ed un accenno di sorriso sui loro volti. Eccoli signori, i rivoluzionari. 
“Non dobbiamo stare zitti per paura. E’ morto The Breadman signori. Piangiamo cazzo. Urliamo a Dio quanto diavolo ci manca. Parliamone. Parliamo di quanto era mitico il suo modo di accoglierci. Come quando ti trovava senza ombrello e chiunque tu fossi ti portava a casa.”
Fuori dalla chiesa un barbone che per una notte di pioggia aveva dormito a casa di Jonathan sorrideva e piangeva di fronte a queste parole.
“Questo era Jonathan. Non un silenzio. non un mormorio di persone silenziose. Cazzo no. Non ci sto padre”
E la rivoluzione ebbe inizio. Senza che nulla fu preparato, ma solo con uno sguardo un coro di otto persone contate disse
“Noi non ci stiamo”.

La storia finisce ovviamente qui. Vi sono state risparmiate le pietose scenate dei genitori dei sette e del tutore di Sanders. Vi è stata risparmiata la sconfitta della rivoluzione ed anche il momento in cui Numero 51 scopre di non aver più la lettera, ed in tutto quel casino, con Rihanna che viene allontanata dai suoi genitori trova chissà dove la forza di urlarle “MI PIACI”. E non sapremo mai se fosse corrisposto. Vi siete anche persi l’esilarante momento dei Tremors che leggono ad alta voce, mentre i genitori li trascinano con forza fuori, la lettera d’amore di Sanders. E vi perderete la risata lontana di Ale e Fray, che a porte della chiesa chiuse fece pure ridere qualcuno che pensò “Chissà che diavolo hanno combinato”.
Ed una morale non c’è. Non c’è giusto o sbagliato. Solo due scelte. 
Il silenzio e la parola.

Andrea (sdl)
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Il treno

Immagine appartenente al rispettivo autore

Questo racconto, come ogni racconto, è pura finzione. In ogni storia c’è ovviamente un filo di verità, o di magia. Sta al lettore scovarla, o credere di averla vista.

Si chiedono se di qua passino mai i treni, se si possano vedere, appoggiati al pendio che porta sulla collina. Se si possano scorgere tra i raggi di luce dell’alba o del tramonto, in quell’arancio surreale che li colora.
Io non li ho mai visti, ma di certo li ho sentiti. La notte, quando mi rigiravo nelle coperte, sentivo quel brusio che da lontano si avvicinava fino a divenire il battito di un cuore di ferro, e poi tornare ad essere rumore indefinito nella lontananza. Mi sono svegliato parecchie volte e spesso ho avuto paura. Paura di diventare di ferro anch’io. O di essere travolto. Sono paure che ti capitano quando sei piccolo.
Sono passati cinque anni da quella prima volta, quella in cui sentii il treno. O forse semplicemente mi avvisò che c’era. Ancora nessuno è riuscito a trovare quella ferrovia. Mi ricordo che quest’estate in città un gruppo di persone si riunì per fare un esposto al sindaco, per lamentarsi dei rumori notturni. Il sindaco scocciato rispose loro in maniera sgarbata. Anche lui non dormiva bene.
E nessuno di loro,
dico nessuno, sapeva come fare. Era quel batticuore alieno che li svegliava la notte, e mezza città non riusciva a prender sonno.
Una notte, decisi di fare un piccolo accampamento per capire se era possibile vedere il treno. Mi misi nel mezzo della salita che delineava la grande collina. Come spesso accadeva c’erano altre persone. Altri che, come me, erano lì per cercare il treno. Si sarebbero anche accontentati della ferrovia, se l’avessero trovata, ma purtroppo era una semplice ed immensa collina verde. Niente di speciale, ad un qualsiasi occhio di questo mondo.
Attaccai la mia tenda fissandola bene al terreno morbido. Era ancora estate e quindi potevo stare con meno vestiti. L’erba sotto di me era morbida ed umida e temevo di sporcare nuovamente i miei pantaloni e venire sgridato dalla mamma quando li avrei portati a lavare, ma poco importava. Se fossi tornato con qualcosa mi avrebbe almeno perdonato.
Attorno alla collina avevano messo qualche luce, ma tutte erano molto distanti tra loro. In questo modo dicevano di voler conservare l’alone di mistero attorno al treno. Secondo me volevano solo risparmiare. In fondo non si era mai vista una collina illuminata. Le altre persone intorno a me parlavano spazientite. Non era la prima volta che capitavano qui di notte, ma stavolta volevano davvero farla finita.
Però, dicevano, ci viene sempre paura.
Chissà come mai, mi domandavo, in fondo un treno è pur sempre un treno. Cosa potrà mai avere di speciale? L’unica cosa speciale era che non c’erano rotaie, e quindi dove passava? Ma tutti, dico tutti, erano sicuri che passasse di là. Il rumore era proveniente dalla collina, e chi c’era stato diceva che era assordante. Non c’erano dubbi. Il treno passava di là.
Fu così che, senza nemmeno rendermene conto, arrivai alle tre di notte, senza nemmeno un briciolo di suono che rassomigliasse il treno. I soliti rumori estivi, qualche macchina lontana, e le chiacchere di questo gruppo di persone che si erano messe a giocare a carte.
Alle quattro non resistetti più, e caddi in un sonno profondo.
Quando al mattino mi svegliai mi resi conto che sarebbe stata una dura giornata: avevo sporcato i pantaloni.

Il giorno dopo decisi di ripetere l’esperimento. La cosa strana è che altri cittadini, quella notte, avevano comunque sentito il treno passare. Quindi non ero mica tanto sicuro che la collina fosse il posto dove cercarlo. Ma, vuoi per l’aura magica della collina, vuoi perchè non sapevo dove altro cercare, ci tornai.
Ammetto che fu complicato convincere mia madre, il cui unico timore non era la mia salute, ma il modo in cui avrei riportato i vestiti. Quindi stavolta mi preparai bene con tanti teli. Piantai nuovamente la mia tenda, e mi misi ad aspettare.

Il gruppo di ragazzi del giorno precedente oggi era assente. Forse arresi all’evidente sconfitta.
Arrivarono nuovamente le tre di notte. Ma stavolta fu diverso. Passarono pochi altri minuti fin quando le luci attorno alla collina emisero una piccola intermittenza, una flessione nel loro modo abituale di risplendere. Subito dopo iniziò il brusio. Sentivo tante voci. Voci di bambini stupiti, di madri che li richiamavano all’ordine, di padri che speravano nel futuro. E poi, finalmente, quel CIUF CIUF, di un treno d’epoca che partiva. Ma ancora nessun rumore del treno che correva sulle rotaie. Era come se stessi ascoltando i dialoghi di un qualche film, senza però vedere nulla. Ero solo sulla collina, e le luci iniziarono nuovamente ad avere quel tremolio, tipico delle stelle. Ogni secondo che passava rendeva quelle luci simili a stelle in cielo, stelle tremanti ma che non cadevano, per fortuna. La terra poi iniziò ad oscillare leggermente in avanti e poi indietro. Era un’oscillazione talmente impercettibile che forse era meglio chiamarla vibrazione.

Un vento si alzò forte da nord. La mia tenda tremava come una foglia in esso. Mi avvicinai per fissarla meglio al terreno, ma una folata la portò via nella notte. Ora si che mi sarei dovuto preoccupare per la ramanzina della mamma.
Non era finita però. O forse finì lì. Il tremolio smise, le luci si spensero, il vento scomparve. Rimasi nel buio pesto in ginocchio, a cercare la mia torcia per capire almeno cosa avessi intorno, noncurante dei pantaloni che ormai si sporcavano sull’erba.
Ero lì, nel silenzio assoluto, in una totale assenza di rumori, di colori, che infine lo vidi.
Prima sentii quel brusio arrivare da lontano. Ma questa volta non erano voci, era lui. Poi, all’orizzonte, due luci iniziarono ad avvicinarsi, e quell’inconfondibile ciuf ciuf si faceva strada. Non c’erano stelle in cielo, l’unica luce che vedevo era quella del treno, e l’unica cosa che percepivo era l’erba sotto le mie mani. Ancora carponi rimasi immobile ad osservare il suo passaggio.

Passava esattamente sopra la collina. Non accanto, non vicino, sopra. Ed era un treno di altre epoche, molto vecchio. Su di esso centinaia di bambini partivano per chissà quale scuola. Sembrava il loro primo giorno. Alcuni piangevano, altri invece lottavano per conquistare il piccolo gioco dell’amico. Erano poveri, o forse appartenevano ad un’era diversa dalla mia.
Il suono fu assordante, staccai le mani dal soffice tocco dell’erba per coprirmi le orecchie finchè l’ultima scia del treno scomparve all’orizzonte.
Appena il treno se ne andò riapparvero le luci, le stelle, ed anche i tipi del giorno scorso, che mi guardavano con aria stupita.
Sarà che erano stati sempre lì, sarà che ormai erano passati dieci minuti da quando avevo iniziato, o sarà stato che lì, in quel momento, ho finalmente iniziato a sognare e loro non riuscivano a capirlo.

Andrea (sdl)

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L’ultima lettera

Tutto quello che avevo da dire è scomparso nella sabbia.
C’erano un tempo dei ricordi, fotografie sparpagliate, ora di loro rimane poco o nulla. Ora di me rimane poco o nulla.
Sopra la panchina il tempo scorre e mi porta via la vita, sopra di me il cielo scorre e mi porta via la memoria. Ed io nel mezzo, ancora a guardare il mondo. Ed io nel mezzo, a sognare.

A Z. veniva sempre da piangere in questi momenti. Era solo di nuovo. Ora guardava il cielo su di una panchina nella fortezza, a firenze. Di fronte a lui il prato circondava in cerchio uno specchio d’acqua. E’ notte, notte fonda nella mente di Z. e fuori il sole di mezzogiorno sembra voler morire su di lui. Appeso ad un filo che perpendicolarmente lo tiene incollato al destino, il sole sembra voler dire “Basta, non ce la faccio più” e Z la pensa come lui. Z ha finito le parole, oltre di lui nessun’altra persona, dentro di lui tutto il mondo ad urlare.

Nella mia vita sono stato tutto e sono stato niente. Perché io ero le persone che vivevo. Io ero il loro benessere, e con questo obiettivo, con questo infantile obiettivo, io sono arrivato a dove sono ora.
Rendere felici gli altri, lo direste stupido?
C’è chi la chiama ingenuità, io lo chiamo amore.
Perchè ci siamo tutti persi nel nostro egoismo per ritrovare la scintilla che ci ha cambiati davvero, od anche solo per scoprirla.

Z non aveva tempo. Era il personaggio di una storia, o forse di mille altre. Z era il ragazzo che attendeva al treno, Z era il barbone che pregava per la strada, Z era il fedele che chiedeva a dio “Perchè?” in chiesa.
Z era tutti e nessuno. Perchè in ogni personaggio c’era quel briciolo d’amore che lui rappresentava. Z era esattamente questo. Non l’alfa e l’omega, non l’inizio e la fine, ma ciò che sta nel mezzo, la parte meno eclatante e più vera della vita.


Cosa dovrei fare ora? Cosa dovrei essere? Il mondo mi rifiuta, non mi accetta e mi deride. Perchè è impossibile osservare un amore così senza abusarne. Mi sento vuoto, perso nel mare delle persone che mi tengono la mano solo per non cadere, e quando cado nessuno si accorge di me.
Guardatemi vi prego, fate che possa vedere la mia luce.

Quello che Z chiedeva era la più semplice delle affermazioni. Quella dell’esistenza. Il suo modo di essere era stato fin ora il contorno di un teatrino a cui però non poteva prendere parte. Z era il sipario sul quale le persone riuscivano a cantare e danzare. E lui sentiva le melodie splendide che riusciva a creare.
Ma poi, quando lo spettacolo giungeva al termine, per lui non vi era neanche una mano che batteva. Per lui solo il silenzio. Solo il buio. Nessun grazie, niente.
E quel buio lo tormentava.
Z è la speranza che perdiamo e che ritroviamo, ma che dimentichiamo di ringraziare. Tutte le volte che la vita ci ha cambiati e le altre mille in cui ci ha aperto gli occhi.
Z è e sarà molto altro ancora, ma sempre nell’ombra. Noi siamo sempre troppo persi dietro ai nostri guai per guardare intorno, per vedere ciò che ci salva la vita, o ciò che la sorprende. Alle volte noi uomini siamo solo piccoli cannocchiali che guardano avanti, incapaci di vedere tutto il paesaggio, ma capaci di arrivare laddove desiderano.

Z esiste in ogni trama o storia, in ogni racconto, Z sono le pagine del libro, le lacrime sulle lettere o su di un cellulare, Z è il tramonto ed una carezza, Z è la natura che ti risponde, Z è l’amore, ma prima di tutto Z è il mondo intorno a noi.

Andrea (sdl)

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Once upon a time

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Alcune volte, non lo nego, mi piacerebbe partecipare (e magari vincere) qualche modesto concorso letterario. Purtroppo però la realtà è sempre un’altra. Vuoi per mia fannullaggine, vuoi per altro, finisco sempre con mille idee in testa e nessuna idea in mano.
Ci sono poi le volte che concretizzo e poi scopro i limiti della mia ignoranza, ovvero le cartelle. Troppo tardi ho saputo cosa erano e quanto troppo avevo scritto. Mi ritrovo quindi con qualche racconto che era nato per morire in un concorso senza troppe speranze. Tenerlo per me non avrebbe troppo senso e quindi ve lo fornisco a voi, sperando possa se non altro darvi da pensare o farvi passare il tempo.

Il concorso era indetto dal quotidiano Repubblica (anzi, da Repubblica.it) ed era un concorso letterario che affrontava l’attuale questione della dipendenza dalla rete. Purtroppo (come ho già detto) il difetto del mio racconto era la lunghezza. E sinceramente non mi andava di accorciarlo.
Pertanto eccovelo qui
Scarica il racconto
il titolo è “Anno 2007

Spero apprezzerete.

Andrea (sdl)