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Indizi – Racconto 8 – L’altra possibilità

Eliseos Nocturnos

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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog. Il commentatore che ha ispirato il racconto è Le cirque de la mode, con le parole: “Gioco al massacro”

L’altra possibilità

Cosa non farei se avessi un’altra opportunità.
Lo pensa, lo pensa davvero. Guardando indietro tutti i contorni paiono sfumati ed incerti, un’intera storia sembrava reggersi su delle palafitte di dubbia affidabilità, ed eccoli ora nel loro mare tempestoso a cercare di uscirne vivi.
Ognuno per se ovviamente.

Parigi, estate del 1995. Calda ed afosa come poche altre se ne sentivano. Loro due, stranieri in patria di stranieri, erano sul lungo cammino degli dei che i parigini avevano disegnato per dare dimostrazione delle loro capacità. Gli Champs-Élysées.
Un viale alberato di certo poco modesto li costeggia, come la strada d’altronde.
Adesso sono entrambi fermi di fronte ad una pasticceria francese, lei impugna la borsa, lui tra le mani ha solo l’ineffabile leggerezza delle proprie parole.
“Ecco, questo non l’ho mai sopportato di te. Il tuo modo di credere di sapere tutto. Pensi davvero di sapere come mi sento io? Come si sente una donna? No caro ragazzino, tu di donne non ci capisci nulla, questo è il fatto. E lo dimostra la mia crisi. Lo capisci vero? Lo capisci che sono incazzata nera con te? Lo capisci che non ce la faccio più a reggere tutta questa vita? E tu che mi chiami, e tu che vuoi sapere che faccio, e tu che mi chiedi con chi sono.
Lasciami respirare RE SPI RA RE. Non ti chiedo tanto, anzi: Non ti chiedevo tanto.”
Un fiume in piena di parole le frulla in testa. Dicono che la fine di una relazione sia solo la conseguenza di un moto messo in azione molto tempo prima. Chi lo dice non ha tutti i torti, ma di certo non si è fatto una vita migliore della loro.

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Indizi – Racconto 7 – Nessuno

sleep ... tube ... work ... tube ... sleep ... tube ... work ...
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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog.
Il commentatore che ha ispirato il racconto è hysteria, con le parole: “Fenice, metropolitana, lego”

Nessuno

Un giorno come molti altri nella grande città. La pioggia cade, precipita giù senza alcun segno di temere la caduta. Si paracaduta e BUM.
Schianto a terra per poi sciogliere residui di marcio presenti ai bordi delle strade, colorarsi di un marrone sporco e scivolare via, ai lati metallici di una fognatura qualunque.
Qui le cose non hanno un nome, c’è della gente che sta camminando sull’altro lato della strada. Ci sono due tizi che litigano all’incrocio di fronte al semaforo. Ci sono alcune macchine ferme in attesa che quei due “Fottuti cretini”, a detta del tassista.
Ma niente ferma la pioggia che ancora scende e rimbalza su una pozzanghera a sua volta frantumata da una scarpa con un’intelaiatura in plastica che la metà basterebbe. I rimbalzi di gocce figlie, nate da quel sesso precoce, si disperdono nell’aria per poi scomparire anch’esse a terra, o sul fondo dei pantaloni di un qualsiasi altro passante.
Non ci sono nomi degni di nota in questa città.
Neanche il mio.

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Indizi – Racconto 6 – Keep the faith


Dark Church
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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog.
Il commentatore che ha ispirato il racconto è Andrea, con le parole: “Strada, Alberi, Autunno”

Keep the faith

“Cos’è la fede, se non camminare nel buio pesto con la certezza che stiamo andando nella direzione giusta? Cos’è, se non una strada invisibile che noi riusciamo a percorrere senza le indicazioni di nessuno?”
Il padre si rivolge alla chiesa, con gli occhi riesce a contare una decina di fedeli. Pochi, considerando che è domenica e che almeno fino alla settimana scorsa, pareva esserci interesse nei confronti di questo ignoto Dio.
“Io mi rivolgo a voi, pecorelle smarrite. A voi che ogni mattina vi alzate e vi chiedete perché siete qui. Qual’è il motivo che vi porta ogni giorno a volervi alzare, a voler vivere questi momenti splendidi con i vostri cari, ad affrontare tutte le difficoltà della giornata.
Voi ora siete qui per una ragione che probabilmente non verrà a voi rivelata subito, in maniera fulminea, ma vi apparirà chiara con il passare del tempo. Perché ogni persona ha uno scopo, un fine ultimo, e non ne verrete a conoscenza tramite una esperienza mistica, ma con la vita di tutti i giorni.
Bevendo un caffè, aiutando un passante, facendo una scelta diversa.

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Indizi – Racconto 5 – Skyline

blue moon over manhattan
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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog.
Il commentatore che ha ispirato il racconto è Ortica, con le parole: “primavera, ritorno, 2010”

SkyLine


Corridoio Est, Stanza C

Albert prese il pedone e lo posiziona di fronte al precedente. La lunga processione si contorceva in un semicerchio che tentava di andare a toccare, raggiungere, o forse semplicemente deviare, il corso di una struttura più articolata sempre composta da pedoni.
Quella che stava prendendo vita di fronte a lui era una semplice partita di Dominus, versione rivisitata e corretta del domino, costruita in modo tale da permettere uno scontro tra due giocatori.
L’idea di fondo era quella di contare le pedine cadute, e sfruttare la propria processione per interrompere quella dell’altro senza però bloccare la propria. Tempo massimo per la mossa: dieci secondi. Mentre il tempo del gioco poteva essere deciso di comune accordo tra i giocatori. Il minimo era ovviamente dieci minuti.
Nient’altro. Nessun’altra regola se non il fatto che i pedoni dovevano essere consecutivi, fatta eccezione per i pedoni che “attraversavano” la processione avversaria. Tutto qua. Niente di eccezionale in effetti, ma quello era l’unico gioco che avevano a disposizione, e passare il tempo non era così semplice.
“Sta a te muovere, vediamo se stavolta sai fare di meglio”
“Ehi, Silvester, stai calmo ok? Non mettermi fretta. Ho sempre odiato i giochi psicologici di voi studiosi del cavolo”
“Uno nasce tra le chiavi inglesi e guarda come diventa” Silvester rise. Il suo volto barbuto, i suoi capelli brizzolati, erano la cornice di uno scontro verbale che desiderava ardentemente. Anche solo per ingannare l’attesa.

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Indizi – Racconto 4 – Tic

Cherry Blossom
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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog.
Il commentatore che ha ispirato il racconto è Ilaria, con le parole: “Giapponese, Microfono, Vocabolario”

Tic

Bernando Umiretti non si poteva descrivere facilmente. Già il suo nome era qualcosa di originale, allo stesso tempo unico ma non memorizzabile. Non era raro vedere gente che fermava Bernardo e gli diceva “Ehi ciao” per poi cadere in un silenzio plateale, quasi imbarazzante.
Il momento della verità, dal suo punto di vista, era sempre e solo quando pronunciavano il suo nome. Se ci riuscivano, beh, allora sicuramente avevano un forte legame affettivo o un grande interesse.
Riuscire a definirsi una strada da quel punto in poi fu piuttosto naturale per lui. Nonostante la difficile adolescenza che formò il suo carattere in maniera bizzarra, quasi isterica si potrebbe dire, a venticinque anni sapeva distinguere con perfezione e senza problemi le persone che erano interessate a lui, quelle che gli volevano bene, quelle che volevano qualcosa da lui e quelle che lo ignoravano.
Qualcuno potrebbe argomentare: Sai che roba.
Ma in fondo la capacità, sicura e con altissime percentuali, di distinguere tutto ciò era tutt’altro che scontata. Anzi. Bernardo riusciva a fregare chiunque.

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Indizi – Racconto 3 – L’enigma

sigurd lewerentz, florist, 1969
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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog.
Il commentatore che ha ispirato il racconto è Hugh Hefner (soprannome.), con la frase: “Devo cercare di dividere il sogno dalla realtà altrimenti non risolverò l’enigma…”

L’enigma

Buio. Nero fottuto buio. Di nuovo.
Buio. Fottuto. L’avevo detto? Maledetto. Di sicuro maledetto.
Questo è quello che sto vedendo, nient’altro. 360° di buio 100%. Qualità svizzera.
Dove cazzo è finita la luce? Tasto intorno, sento qualcosa di morbido. Coperte? Non dovrebbero essercene. A meno che… No. Non può essere. La mia mano è lì, sul muro ruvido, ne sento tutte le piccole frammentature, ed ecco finalmente quello che voglio: L’interruttore.
Che fatica però, lo premo. La luce è forte. Troppo. Da quanto sono nel buio? Giorni? Ore?
“Giulia? Ci sei? GIULIA? DOVE CAZZO SEI GIULIA? TI HO DETTO CHE NON TE NE DEVI MAI ANDARE. LO CAPISCI O NO? LO RIESCI A CAPIRE QUESTO?”
Giulia non risponde. Vai a capire dove è andata a finire quella puttana. Sarà a scoparsi il primo che capita nel solito bar pieno di merda. Ecco cosa succede ad essere me. Cammini nella merda, ma non ci finisci mai. Bel modo di vivere.
“GIULIA? SE MI SENTI MUOVI QUEL TUO CULONE, CAPITO?”
Trentanove.
Che diavolo mi viene in mente? Un numero? Trentanove.
Deve significare qualcosa.
Solo ora mi rendo conto della stanza. C’è qualcosa di anomalo. La prima cosa è che: dovrei davvero essere qui io? La seconda è che la finestra è una finestra di legno, di quelle che si aprono e cigolano. Legno colorato verde. Adesso è chiusa, e visto il resto o è murata, o è notte.

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Indizi – Racconto 2 – Where is Jonny

I Shall Walk Alone
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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog.
Il commentatore che ha ispirato il racconto è anonimo, con le parole: “cadavere, squisito, bruma”


Where is Jonny

“Quarantasette?”
“Si, quarantasette. Che ha di tanto strano?”
“Nulla, solo che me ne sarei aspettate un pò meno. Non avrà esagerato?”
“E’ quello che ho pensato anche io, ma a dirla tutta non saprei. Dipende che intenzioni aveva. “
“Oddio, non hai tutti i torti. Ci possono essere tante casistiche che non stiamo considerando. Però quarantasette coltellate sono davvero troppe.”
“Già. Avrà avuto qualcosa dentro di enorme”
“Enorme? Guarda, il massimo che conoscevo io era quindici. Siamo al triplo. Mi capisci? Il triplo!”
“Non posso che darti ragione. Però, diavolo. Dove è finita?”
“Sarà andata a casa”
“Dovremmo trovarla”
“Già. Non si può fare così.”
“Quarantasette coltellate. Ancora non riesco a crederci. Questa deve farsi curare da uno bravo.”

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Indizi – Racconto 1 – Il temporale

Highway to hell
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Questo racconto fa parte di una serie di racconti ispirati da “indizi” dettati dai commentatori del blog.
Il commentatore che ha ispirato il racconto è Eva (Le Cirque de la mode), con la frase: “Quando ho capito cosa desideravo veramente, ho cominciato ad avere paura. Avrei potuto restare senza niente.”


Il temporale

La mano di Eva poggia nell’incavo della cornice di legno che componeva la vecchia finestra del rudere. Legno pieno di schegge che potevano conficcarsi nella sua mano, così perfetta, da un momento ad un altro.
Il vetro appena appannato dal suo respiro incerto, lei guarda fuori, la radura, i campi, la distesa che fin da piccola l’ha accompagnata.
Una luce assente. Ecco quello che lei vede. Il temporale è vicino, fin troppo. Non ci sono schiarite, non ci sono ponti sotto i quali ripararsi, solo un tetto, e speriamo che basti.
“Non ci salveremo da quello, dovresti saperlo.” dice.
E lo dice non come un desidero, non come una condanna. Non lo dice neanche come un condannato a morte che ha perso le speranze.
E’ un sussurro, docile, gentile, soffice.
A Darren parte un brivido che gli fa rizzare per intero tutti i peli del corpo. Un misto incomprensibile di eccitazione e paura.
“Non è quello il nostro problema. Lo sai bene.”

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Monologhi (Parte 5 – Bed of roses)

the tunnel
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Questa è la quinta ed ultima parte del “mini-racconto” Monologhi. Cinque improvvisazioni di cinque anonimi protagonisti. Nessuno di loro ha un nome. Nessuno di loro l’avrà mai.

Prefazione e Parte 1: Somewhere over the rainbow
Parte 2: All you need is love
Parte 3: Halleluja
Parte 4: Coming of age
Parte 5: Bed of roses


Bed of roses

Voi non siete qui. Io non sono qui. Il tavolo che state vedendo è la proiezione tridimensionale di qualcosa che, di certo, non è qui.
Il vostro cuore non è qui, e non c’è mai stato. La vostra mente non è qui. Vaga altrove. Tra le gambe di una donna, sulle labbra di una persona, mano nella mano, nei fogli del lavoro. La vostra mente è solo un mezzo.
Il mondo, signori miei, si è spostato. E’ andato avanti lasciando tutti voi indietro. Questa è la verità.
Io vi guardo. Voi mi guardate.
Ed in fondo tutti noi sappiamo che è vero. Pubblico pagante e non.
Potrei tentare di convincervi del contrario, ma perchè sprecarsi?
Siamo decisionalmente daltonici. Incapaci di distinguere il giusto dallo sbagliato. Tutto si confonde in un colore indefinito che per noi è semplicemente da fare, ma non capiamo mai quale sia la direzione da seguire.
E’ questo il nostro millennio. Il nuovo secolo. Siamo entrati in una nuova era che fa schifo.
E siamo i protagonisti. Noi. Solo noi. E possiamo stare qui a discuterne o cercare di raccattare i pezzi di quest’inutile baracca e costruirci qualcosa di migliore. Un parco, un giardino, una casa in campagna, un riassunto. Andrebbe tutto sicuramente meglio di questa schifezza in cui stiamo affogando.
Merda. Direbbero alcuni. Ed in fondo mi trovo a dover dar loro ragione. Questa è merda. Che piove dal cielo, che ci seppellisce e ci fa dimenticare chi siamo. Qual’era il nostro nome di battesimo, il punto di partenza della nostra vita.
Ci sarebbe bastato questo ma sappiamo che così non sarà. Il mondo sa essere crudele.
Io vi guardo e vorrei darvi una speranza. Ma guardatemi invece. Ho i capelli bianchi. Si, i capelli bianchi. La vecchiaia, i presagi di morte. Questo sono. Un biglietto di sola andata per un mondo migliore. E poi? Cosa ho indosso? Vestiti. Da povero. Non ho orologi d’oro non ho un suv come auto. Sono indebitato come voi in questa vita che continua a chiedermi il conto.
Ed io che neanche ero al dolce.
Ed in fondo faceva pure schifo il cibo.
Era sciocco.
Una volta un uomo entrò in una stanza, di fronte a tanti alunni. Loro erano il potenziale del futuro. La speranza di un paese. Erano i semi. Lui era il frutto.
Lui li osservò tutti. Avrebbe voluto farli germogliare. Disse loro: Prendete queste parole. Scriveteci qualcosa.
Erano una trentina di parole. Comuni. Come mela, pane, attraversare la luna in un’incerta transizione che di certo portava all’america, ma in fondo nessun paese è l’america. Qualcosa del genere. Erano tante parole a leggerle, ma poche quando uno doveva scriverle.
Il vero problema, però, era unirle tutte in un discorso.
L’uomo disse che avevano dieci minuti. E disse che pure lui avrebbe scritto qualcosa.
Il tempo passò. Le persone cercavano conferme, spaesate com’erano da quella richiesta. Molti cercarono di copiare, ma non avrebbe fatto la differenza.
Alla fine del tempo l’uomo fece leggere a turno le storie ai ragazzi. Erano povere, ma le ascoltò comunque. Ed infine disse la sua.
Non ricordo di cosa parlasse. Ricordo che nel sentirla capii che dalle parole si poteva costruire davvero un mondo intero, e lui c’era riuscito. Era la nostra prova vivente che con una trentina di parole si può trasformare un’aula di ragazzi. Per noi era incredibile. Per lui sarà stato probabilmente normale.
Quell’intreccio, quel mescolio di parole, fu la perfetta rappresentazione di ciò che ogni uomo desidera raggiungere prima o poi. Il giusto mix, la buona minestra, il risultato perfetto degli addendi.
Io voi, i miei vestiti schifosi, il mio fare impacciato. Prima o poi mi auguro che tutto questo si chiuda come un cerchio perfetto, e dia un senso alla confusione.
E magari, giusto per condire il piatto, facciamo che non capiti troppo tardi.


Andrea (sdl)
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Monologhi (Parte 4 – Coming of age)

Luz
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Questa è la quarta parte del “mini-racconto” Monologhi. In totale saranno 5 parti. Cinque improvvisazioni di cinque anonimi protagonisti. Nessuno di loro ha un nome. Nessuno di loro l’avrà mai.

Prefazione e Parte 1: Somewhere over the rainbow
Parte 2: All you need is love
Parte 3: Halleluja
Parte 4: Coming of age
Parte 5: Bed of roses


Coming of age


Vorrei raccontarvi una storia. Parla di un uomo che fu lasciato. Diceva che non c’era modo migliore di esorcizzare il dolore che con le parole. Allora partiva e scriveva. Finchè aveva fiato e forza nelle mani.
Aveva una penna stilografica. Di quelle che ormai non si vedono più tanto spesso.
Poggiata sul tavolo in mogano c’erano quella penna e un serbatoio ripieno di inchiostro.
Aveva dei fogli bianchi sulla scrivania. Fogli vuoti. Per quando il suo cuore era troppo pieno. O forse erano bianchi perchè ancora era troppo vuoto. Non saprei dirvelo.
L’uomo scriveva per salvarsi. Pensava che ci fosse solo quel modo di salvarsi.
Il sesso facile, il fumo, o altri vizi, non gli dettero mai la stessa risposta delle parole. Loro erano un’eiaculazione precoce. Un qualcosa di gustato solo in parte. Non gli permettevano di soffocare tutte quelle immagini.

La scrittura, invece, si.
Ci riusciva. E l’uomo non sapeva neanche come. Capitò svariate volte. Il modus operandi era il solito. D’un tratto l’amore spariva nello stesso modo in cui era apparso. Le avvisaglie erano sempre le solite. Aumento del raziocinio, lamentele o litigi, assenze. L’uomo veniva quindi abbandonato, gettato.
Ed alla fine del travaglio cosa gli rimaneva? Sabbia che scivola via, aria che non puoi raccogliere, tante parole soffocate nel mezzo della gola. Pronte ad uscire, ma non mature abbastanza per essere apprezzate.

Non è l’unica storia che vi potrei raccontare, è vero. Milioni di persone sono così. Per alcune è la scrittura, per altre l’alcol, per altre ancora non saprei dire cosa permette a loro di superare il buio della camera.
Ma sicuramente qualcosa riescono a trovarlo.
Quelle che non ci riescono, beh, meglio che non sappiate cosa decidono di fare.
Comunque questa era la sua vita.
E lui prendeva il suo computer, in ere passate sarebbe stato di fronte ad una macchina da scrivere o magari di fronte ad un semplicissimo foglio di carta, con una piuma da intingere in dell’inchiostro.
Ma oggi abbiamo la tecnologia che ci salva dalla fatica, per fortuna.
Iniziava a scrivere. In maniera naturale. Partiva a volte da storie semplicissime. Due persone che camminano, un ragazzo che guarda il cielo, un obiettivo nella vita. Per poi trasformarle, con quella magia di cui ogni scrittore in qualche modo è dotato.
Altre volte invece iniziava la trama come una fiaba.
“C’era una volta” diceva.
Voleva trasmettere al lettore quel senso di antico, di raro, di fanciullesco, che ogni tanto la gente dimenticava.

Dov’è, vi chiederete?
Non saprei dirvelo. L’ultima volta che lo vidi girovagava per i negozi del centro città. Il suo sguardo sembrava perso oltre una vetrina di un negozio di vestiti.
Fermo immobile, le mani che in qualche modo si aggrappavano ai suoi stessi pantaloni, li stringevano in maniera nervosa.
I suoi occhi trapassavano letteralmente i vetri per guardare oltre quei manichini.
Magari si era innamorato di nuovo, o era semplicemente invidioso di chi poteva permettersi quei vestiti.

Vi aspettavate una morale? E’ come sperare che Dio sia giusto. Non c’è una morale. Non c’è mai.
Quando qualcuno muore pensate che Dio l’abbia voluto? Se una persona è stata salvata pensate sia volontà divina?
Una volta un prete mi disse che la fede non era il contenuto di un bicchiere, ma il bicchiere stesso. Noi eravamo invece il contenuto. Per questo non c’è una morale in questa storia. Non c’è una morale in nessuna delle storie. Ciononostante non significa che dalle storie non ci sia da apprendere, ma non sempre la risposta è decisa da chi narra.
Io sono solo un giullare, un contenitore, siete voi invece che dovrete trovare un senso a tutto questo. Di più non saprei dirvi.

Andrea (sdl)