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Monologhi (Parte 3 – Halleluja)

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Questa è la terza parte del “mini-racconto” Monologhi. In totale saranno 5 parti. Cinque improvvisazioni di cinque anonimi protagonisti. Nessuno di loro ha un nome. Nessuno di loro l’avrà mai.

Prefazione e Parte 1: Somewhere over the rainbow
Parte 2: All you need is love
Parte 3: Halleluja
Parte 4: Coming of age
Parte 5: Bed of roses


Halleluja

Chiudete gli occhi adesso. Con le mani giunte verso il cielo immaginate l’odore della cera di una candela accesa vicino a voi. Focalizzatevi su di essa. Gli occhi della vostra mente devono sentire l’erosione di quella candela, immaginare la luce del fuoco che la uccide. I vostri occhi devono vedere il riflesso rosso della fiamma sul piccolo lago di cerca che circonda lo stoppino di tessuto imbevuto nella candela.
Dovete ricordare com’era, quando giocando agli innamorati, vi cadeva bollente sulla pelle, ed un gemito, forse un urlo, vi sfuggiva.
Mani giunte. Verso il cielo.
Lui non avrà occhi per voi, ma potrete comunque credere che, oltre quelle nuvole, vi sia un Dio per voi.
Più misericordioso di voi. Che sappia davvero dire cosa è meglio. Qual’è il bene. Com’è che si fa, questo bene.

Io non l’ho mai capito. Lo giuro.
Tutte quelle volte ci ho provato. E tutte le volte ho fallito. Nella spirale di eventi che mi ha portato qui, forse, non ho fatto la scelta giusta.
La droga non era una porta, ma una direzione.
E l’alcol di certo non era una medicina, ma una malattia.
Ho bisogno di cure. E di un Dio che possa capirmi.
O che probabilmente possa perdonarmi. Perché Padre, io ho le mani sporche dei miei peccati. E quando le lavo non vanno mai via. Mi rigiro ogni giorno le mani nel sapone Padre. E sono sempre sporche.
Sporche di me, di questa vita.
Come posso lavarmi via?

Siamo tutti pecore di un gregge. Cerchiamo una guida, il nostro pastore. Colui che ci guiderà nel buio.
Alcuni hanno la fortuna di chiamarlo Amore. E lui apre una strada di fronte a loro. Dice loro quale scelte prendere. E loro, incauti ed ignari lo seguono.
Ma quando tutto finisce, beh, siamo soli Padre. Siamo sempre soli.
Non c’è Dio Padre. Non in questa notte. In questa camera che puzza di fumo, e le coperte non lavate da settimane mi ricordano la sporcizia in cui vivo e mi sveglio. In cui faccio quello che tutti gli uomini fanno.
Mi sporco Padre. Perchè questo so fare.
Se Dio esiste e mi ha creato, perchè mi ha fatto così?

Figliolo. Figliolo. Non è stato Dio a crearti. Ma tua Madre.
Dio ha creato il resto. Dio ha permesso che il resto potesse essere lì. Ma non concederti questo dubbio. Dio non decide le azioni di nessuno. Non può dire a nessuno di evitare di uccidere altri uomini. Dio non può salvarti in questo modo. Se potesse, non avresti la cosa che più vanti di avere: Il libero arbitrio.
Dio non è la soluzione alla stupidità umana Figliolo. Dio, nel peggiore dei casi, potrebbe esserne stato la causa. Ma anche lì ci sarebbe da vedere cos’altro ha creato.
Non solo stupidità.
Figlolo. Mani giunte verso il cielo. Lo vedi quell’immenso blu?
Se non Dio, chi altri lo potrebbe mai aver immaginato un blu così splendido?

Ora vai. Non girarti. Non voltarti. Questa chiesa non scomparirà. Io forse un giorno ti abbandonerò e tu sarai solo, come sei sempre stato.
Ma sappi, ricorda. Dio c’è e ci sarà sempre. Ti ascolterà quando vorrai. E ti perdonerà se ti sentirai colpevole. Anche se tutto questo non è il suo lavoro.
I piani di Dio non possiamo saperli. Ma della sua gentilezza son sicuro. Vai in pace.

Andrea (sdl)

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Monologhi (Parte 2 – All you need is love)

Two way monologue.
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Questa è la seconda parte del “mini-racconto” Monologhi. In totale saranno 5 parti. Cinque improvvisazioni di cinque anonimi protagonisti. Nessuno di loro ha un nome. Nessuno di loro l’avrà mai.

Prefazione e Parte 1: Somewhere over the rainbow
Parte 2: All you need is love
Parte 3: Halleluja
Parte 4: Coming of age
Parte 5: Bed of roses


All you need is love

Voi non vi sentite soli? Io si. Fottutamente sola. Torno a casa ogni sera, ed ogni sera mi metto a piangere. Sapete cosa significa? Piangere ogni sera intendo. E’ fottutamente triste. Entrare in casa e lasciarsi andare al pianto. Incondizionatamente. Perchè, che altro dovrei fare?


Potresti combattere, no?

Combattere contro cosa? Contro il mondo intero? Ho già passato la mia fase rivoluzionaria direi.

Ma non puoi neanche continuare così!

Certo che posso. Cosa ti credi? Pensi di essere migliore di me? Solo perchè sono debole.
Ecco, l’ho detto. Sono debole. Debole come una foglia d’autunno.

E perchè piangi?

Perchè piango? Dovrei partire da Adamo ed Eva per spiegartelo.

Beh, inizia. Chi era Adamo?

Qualcuno che mi ha ferita.

Ed Eva?

Sai fare meglio di così.

Ok. Allora dimmi. Cosa ti ha fatto Adamo?

Nulla. Ecco il punto. Non mi ha fatto nulla. Ed io che avrei voluto. Avrei sperato che lui potesse fare qualcosa. Cambiare, cambiarmi, cambiarsi. E invece no. Hai visto? Il solito grande fallimento della mia vita. Solo uomini incapaci di capirmi.

O forse tu incapace di capire loro?

Ma io sono semplice! Come possono non capirlo? Ogni donna lo è. Ogni donna desidera due o tre cose.

Diamanti a parte, immagino.

Diamanti a parte. Già. Ma perchè deve sempre finire così? Perchè trovo solo uomini stronzi, insensibili?

Il tuo bisogno d’amare forse è diverso. Forse non li trovi, forse li cerchi. E le poche volte che erano diversi? Cosa è successo?

La solita cosa. Non mi andavano bene. Ed ora torno ogni sera in casa a piangere. Ti rendi conto? Una come me che piange. Riesci ad immaginarlo? Mio dio. Neanche ci credo. Ma forse è giusto così. Giusto che io mi senta sola. Perchè magari me lo sono meritato.

Io penso che tu stia semplificando sai?

Semplificando cosa? Come ti permetti tu che non sai nulla di me?

Forse so più di te che non vuoi accettare i limiti tuoi e degli altri. Perchè in fondo, la persona giusta qual’è? Quella che vuoi? Quella che desideri? O quella che semplicemente E’ giusta? Facile dire “Non mi comprende”, o dire “Non vai bene”. Facile trovare errori negli altri senza fare un pò di autocritica. Invece di cercare soluzioni, di cambiare le persone, perchè non migliorarsi?

Facile anche criticare mi pare. Cosa ne sai tu di tutto questo?

Ne so come ne sai tu. Credi di essere l’unica che ha passato tutto questo? Credi di essere speciale? Di aver vissuto qualcosa di unico? No. E’ tutto normale. L’amore, l’innamoramento, e la sua fine. E’ tutto naturale, come quando fiorisce un fiore, o appassisce. Eppure tu non lo capisci. Non capisci che è così che va il mondo. Le cose vanno, e vengono. A volte ritornano, altre invece ci lasciano per sempre. E noi dobbiamo lasciarle andare.

Ma io non voglio lasciarla andare! Non voglio.

Lo supererai. Non sei diversa da nessuno di noi, nè da me. Siamo tutti nella stessa barca. E non ti credere che io sappia meglio di te dov’è che dobbiamo andare per smetterla di soffrire. O di piangere.

Ehm, tu hai mai pianto tornando a casa?

Si. A volte. E probabilmente più di quante tu riesca ad immaginare.

E si smette prima o poi?

Prima o poi tutto finisce. Anche se non sai mai capire se questo sia un bene oppure no.

Andrea (sdl)
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Monologhi (Prefazione e Parte 1 – Somewhere over the rainbow)

monologue
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Questo è un “mini-racconto” che suddividerò per convenienza in più post su questo blog. In totale saranno 5 parti. Cinque improvvisazioni di cinque anonimi protagonisti. Nessuno di loro ha un nome. Nessuno di loro l’avrà mai.

Alessandro prende tra le mani il foglio. Su di esso svariati nomi si stendono nero su bianco. Il foglio è carta semplice, fine, senza qualità.
Alessandro siede su una sedia come tante, di quelle che non ricordi mai, le famose sedie ripiegabili. Al suo lato ci sono Giulia, Riccardo, Stefano ed a completare il cerchio Sandra.
I cinque giudici. Perchè loro, tra tutti, dovranno trovare la persona speciale. Le indicazioni sono chiare. Qualcuno capace di fare la differenza, che abbia quel fattore speciale, quella cosa unica che rimarrà nei cuori del popolo.

E loro cinque sono qui per ascoltarli, ciascuno dovrà dire loro qualcosa. Ed il primo sulla lista sta entrando ora sul palco del teatro. Pronto a dire ciò che pensa.

Somewhere over the rainbow

Chiudo gli occhi ed immagino un mondo diverso. Capita sempre così quando lo faccio. Quando mi lascio cullare da un’idea, una speranza. Che la guerra finisca, o che ci sia un futuro migliore per noi.
Chiudo gli occhi e so che potremo farcela. E’ questa la mia speranza.
Come quando raccontiamo le fiabe, e sappiamo che il bene trionferà leggiadro su tutto il male del mondo. Questa è la nostra speranza, la nostra voglia di fare. Di essere, di vivere.

Eppure mi guardo, e guardo voi. E capisco che c’è una gerarchia da rispettare, un capo a cui fare rapporto, i conti da pagare a fine mese. So bene che tutto questo non si può ignorare perchè così è fatto il nostro mondo. Intrecci. Rapporti, situazioni.
Il bacio, la conquista, sono le ultime cose romantiche che ci vengono concesse. Niente cavalieri, nè draghi, nè principesse in cima ad un castello.
Siamo alla costante ricerca di emozioni forti, nei film, o nelle vacanze d’avventura.
I più onesti accettano l’abitudine. Il solito caffè, la solita sveglia, il solito profumo. Perchè in fondo l’abitudine è più romantica di quanto tutti noi crediamo. L’odore del pane appena fatto, l’odore del caffè, l’inverno, l’autunno. Queste sono cose abitudinarie, che ritornano, cicliche come la nostra stessa vita. Eppure non mancano mai di stringerci il cuore e di farci pensare che sì, in fondo non era poi così male.

Poi torniamo nel nostro flusso, anestetizzati dalla tv, da internet, dall’assenza di vero e sincero contatto umano. Quando tutti balliamo inutilmente in una discoteca, urlando, sbraitando, provandoci, bevendo per dimenticare, eccoci nel nostro zenit autodistruttivo. Vorremmo forse fare qualcosa di migliore di questo? E perchè questo migliore non può essere un ritorno alle origini. A cosa significava dire “Mi piaci”. Quando ancora sapevamo arrossire. Quando tutto questo era più ingenuo, quando il sesso era mistero e non trasgressione. Quando svegliarsi al mattino era un inizio e non una nuova fine.

Quando abbiamo smesso di sognare? Non è la morte di Babbo Natale ad avercelo insegnato. Ma forse è stato il mondo. Non il lavoro, non la scuola, non i parenti.
Ad un certo punto della nostra vita ci siamo semplicemente fermati. E da lì in poi abbiamo cercato di muoverci, di allontanarci disperatamente da questo mondo, fuggendo in paesi esteri, tagliando contatti, traversando mari, allontanandoci, cambiando numero di telefono, cambiando amicizie. Cambiando pure i partner.

E non ci siamo mossi di un millimetro. Quella paura ancora ci affonda. Siamo in mare aperto signori. Ed il capitano sta dicendo solo una cosa: Abbandonare la nave.
Abbandonare la nave.


Le altre parti del racconto:

Prefazione e Parte 1: Somewhere over the rainbow

Andrea (sdl)
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Follia marina

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Non potevamo fare altro. Seduti sul molo, guardando le onde schiantarsi impietosamente sugli scogli. Morire squartate, divise tra due orizzonti.

Non potevamo far altro che guardare, imperterriti, la fine di tutto.
Il mare in tempesta sembrava lui stesso una discussione. Mentre sbraitavo, urlavo. Ed il mondo non avrebbe potuto ascoltare, e come mai avrebbe avuto tale udito?
In quel rumore che intorpidiva i sensi, schianti violenti interrompevano ogni frase. Dividevano me e loro, me e gli altri. Me e questa schiera di imperterriti inseguitori che non ho saputo fuggire.
Il mare.
Un molo.
Le barche che ondeggiano.
Io.
Loro.
Ancora mi volto. Ancora cerco uno sguardo. Una conferma che questa è la direzione. Capitano, è quella la stella polare? Capitano, capitano. Dove devo andare? Uno spruzzo violento d’acqua mi fa quasi affogare ma la mia mano resta ferma immobile. Indica là.
Dove, là?
Là. Non lo vedete. E’ quello il nostro orizzonte.
La gente incredula si guarda tra di loro. Sguardi storti. Le parole confuse si incrociano per domandarsi se tutto questo sia giusto. Se abbia un senso.
I più temerari, indicato il lato opposto dicono: Non l’altro?
No. E’ per di qua la strada.
Il mare non conosce bugie. Ti prende, ti porta a destinazione, se lo vuole. E poi finisce lì. Te lo ricordi per il rumore la notte. Essere cullato dalle onde è qualcosa di unico, di magico, quasi ti auguri di morirci, con quel suono.
Se non sei in mare.
Se non sei su un molo.
E le barche ondeggiano.
Loro. Mi guardano.
Io, indico.
Capitano? Ma cosa dobbiamo fare ora?
Se avessi davvero saputo qualcosa, avrei risposto. Vi risponderei, lo giuro. Ma quello che posso fare è guardarvi. Non c’è altro che io possa fare. Sono un semplice capitano. Mica un veliero.
Io sul mare non ci cammino. Alle volte ci nuoto.
E con un mare così, in genere, ci affogo.
Essere in balia dei venti. Delle azioni, del mondo.
Per cambiare, per andare oltre, serve sempre qualcosa.
Una nave, una zattera, un gruppo di persone stupide o pazze a sufficienza da seguirti.
E se stesse mentendo? Non mente. E’ il nostro capitano.
E se non fosse il nostro capitano? Ma non lo vedi? E’ lui.
Lui chi? Io? Ma io passavo di qua, ero in giro a far compere cosa vi credete.
Per andare oltre bisogna superare il credibile. Ma tutto questo come sempre ha un prezzo.
Andare oltre, oltre quel limite consentito, ha sempre un costo. Qualcosa che rischi. La tua posta.
Gli sguardi non si incrociano se non all’infinito. La gente si volta del tutto e se ne va.
Non c’è nessun capitano senza una ciurma.
Non c’è nessuna nave senza un capitano.
Ed anche un folle, senza un seguito, non è altro che un folle.
Il sipario si chiude, ed il pubblico ringrazia.


Andrea (sdl)
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La scelta giusta

“E se non esistesse una scelta giusta?

Se fosse tutta una collisione d’eventi, un’incompleta gestione d’errori. Se fosse un intero fraintendimento?

Tutto questo, me, te, noi. Se fossimo solo una goccia tra le tante che non sa distinguersi. Salata come le altre, blu come le altre, indefinita come le altre. Guardandoci dall’alto, qualcuno potrebbe mai dire “Eccoli!”? Ci potrebbe mai identificare tra tanti?

Cosa fa una scelta giusta? E’ solo il poi, il dopo. La conseguenza delle nostre azioni. E’ vivere e saper convivere. Soprattutto con i risultati. Ecco cos’è. Non è una verità universale, non è un qualcosa che si può trovare scritto. Il bene, il male, il giusto, lo sbagliato. Sono definizioni così, fatte a mano. La vera definizione è questa: La verità è ciò che rimane quando tutto il resto è scemato. Nulla di più, nulla di meno. E la verità è anche la cosa giusta in questo caso, quella di cui non ti pentirai.”

Sandy è così, su due piedi indecisa, su quattro note sospesa, su cinque accordi adiacente. Non che sapesse definire bene il tutto, anzi. Era pensieri sconnessi, staccati dal mondo, cotone impagliato, rumore di prateria. Il gallo che canta al mattino e ti sveglia di notte. Incoerenze. Ecco. Nulla di più.
Ector invece impugna la sua sigaretta, anche se forse impugnare non è il termine adatto. Si potrebbe dire che la stringe, la tiene ostaggio di una volontà che anche lui fatica a chiarire. Combattere? Arrendersi? Qual’è la vera differenza tra i due? Solo un bivio. Nient’altro che un bivio.

Sandy cerca la forza per ribattere

“Ma cosa diavolo stai dicendo? Vuoi riassumere tutto in questo? Sei diventato stupido in cinque minuti o mi sono persa il momento in cui sei tornato nel tuo bozzolo? Ti sembra il momento di dire cose come questa? Ma soprattutto, perchè? Dico, perchè?

Verità? Bene, male, giusto sbagliato? Ma che diavolo importa.

Perchè senti il fottuto bisogno di dare una definizione a tutto?”

Ector riprese quel fare teatrale. Era lui e forse non era più lui. Altrove, un volto, una maschera, una parola che neanche pensa ma che prende vita.

Per amore, forse. Perchè guardandoti negli occhi ho visto centinaia di prati dove correvamo. Ho visto me e te, ed un bouquet di fiori lanciati in cielo, ed il tuo vestito bianco che cadeva a terra. Ho visto tutto questo ed altro ancora, ho visto un figlio, una casa in campagna. Ho visto il caffè al mattino e tutte le parole che ci diremo sfiorandoci la notte.

Perchè, perchè perchè. Mi domandi così tanti perchè e sembra sia tu quella assetata di verità.

Io voglio solo definire spazi, dire cosa è bianco cosa è nero. Cosa è amore, cosa odio.

Cosa voglio, e cosa non voglio”.

“E cosa vuoi Ector, dimmelo. Cosa vuoi?

Cipolle. Pensò.

Vorrei delle cipolle. Condite bene, con olio aceto sale e pepe.

Si, le vorrei proprio. In fondo cosa c’è di male nelle cipolle. Quel gusto acre, forte, deciso, che non ti abbandona. Come l’odore del sesso. Così forte, così sporco da sembrare proibito. Sporcarsi in una fanghiglia indefinita. Mischiare i propri fluidi fino a ottenere un nuovo cocktail. Per dire finalmente: Ecco, siamo noi.

“Bere. Vorrei solo bere”.

Sandy squadra gli occhi

“Stai scherzando spero!”

Ma guardandolo realizza, non sta scherzando. E’ tutto vero. A partire dal bere.

“Vorrei davvero non aver iniziato tutto questo Sandy”

“Ed ora che fai? Lanci il sasso e nascondi la mano? Pensi sia possibile farlo”

“A volte si. A volte si sceglie una strada e solo dopo ci si rende conto di cosa desideravamo.

Forse non è il bene, o il male. Forse non è la direzione. E’ solo un fatto di comprensione, di sensibilità.

Capire le cose in tempo. Afferrarle prima che sia troppo tardi, o con il giusto anticipo.

Forse saper costruire non è mettere dei mattoni, ma mettere delle fondamenta. Forse tutto questo è un castello di carte. Me, te noi. Siamo solo delle carte, niente di più. Ce la possiamo giocare la nostra partita, ma alla fine vince sempre il banco”

Destino beffardo. Vogliamo arrenderci così? Sandy è stanca.

Stanca dei litigi, delle lotte. Di combattere per qualcosa che non nasce, che continua a morire. Un eterno parto cesario, con sangue a terra, e morti, e morti e morti. E tutto che finisce e ricomincia, e loro ancora lì, a combattere una guerra nel nome di nessuno.

“Smettiamola Ector.

Cosa è rimasto di noi? Dimmelo, cosa è rimasto?”

E fu lì, in quell’istante, che Ector, fuori dal palco, dalla teatralità, da tutto quello che poteva costruire. Dalla finzione, maschere chiuse nei cassetti, uscì una verità.

Una, ma sufficiente a mettere fine a tutto questo.

Ector la guardò. Intensamente.

E con un fil di voce, rimesso ma non remissivo disse

“Noi due, non basta?”

Andrea (sdl)

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La rivoluzione digitale

“Ci sono vuoti che non siamo capaci di colmare. Iridescenze nella notte che non siamo capaci di nascondere. Le chiamiamo paure quando non sappiamo dare loro altro nome. Ma la verità è che avremmo preferito fare diversamente, scegliere una via migliore. Con tutti i buoni propositi di una vita ci guardiamo e ci chiediamo: Potevamo fare meglio?
Si, decisamente. E allora salgono tutti i dubbi legittimati dalla domanda. Cosa ho sbagliato, perché. Ci ripromettiamo di essere padri migliori, figli migliori. Facciamo fioretti per un anno migliore ed alla fine dell’anno contiamo come siamo stati incapaci, e allora abbassiamo il tiro, o lo alziamo. In entrambi i casi alla fine d’anno successiva saremo ancora tutti qui, a dirci che avremmo potuto fare meglio.
Che nel mondo non dobbiamo arrenderci, che dobbiamo renderlo più bello, più accogliente. Ma poi alla resa dei conti, nel rush finale, ci accorgiamo di esser senza fiato. Inutili, abbandonati.”
Desmond, 51 anni, guarda il foglio con evidente malinconia. Il suo respiro è sicuro, le sue mani si aggrappano al foglio come alla verità di questo mondo, i suoi occhi non si staccano da ogni lettera.
“Guardo i miei figli. E guardo mio padre. Ed infine guardo me. Capisco che c’è qualcosa di malato in tutto questo. Cosa ci rende così incapaci di superarci? Di evitare che la storia si ripeta? Le guerre, i morti, la fame nel mondo. Tra altri cinquant’anni forse saremo ancora qui, ed un ignoto Desmond Duprè verrà a raccontarvi la sua verità, di fronte ad una platea simile a quella che voi rappresentate. E tutto questo parlare saranno parole al vento, come questa tecnologia che non ci lascia niente. Questi social network di oggi, che ormai sono solo un modo di vestirsi e non di comunicare.”
Prende una pausa, fa un grosso respiro. E’ importante che capiscano, pensa. Che comprendano il valore di quest’affermazione. Vestirsi. Esatto. E’ questo che ho detto. Ragionate. Tutti questi Facebook, twitter, cosa sono diventati adesso se non un modo di vestire? Tu come ti vesti? Io “Ci tengo agli animali”, “Viva il duce”, “Fuori i clandestiti”, “Evviva il comunismo”, “Quelli che non c’hanno capito nulla”. Sono tutti vestiti.
Guarda di fronte a se, il bordo delle sue labbra si increspa leggermente quasi ad accennare un sorriso.
“Abbiamo perso il bisogno di condividere, di comunicare. Ormai siamo solo abbandonati, senza una direzione, una strada da seguire. Sentiamo il bisogno di identificarci in una società che, grazie ai mezzi come internet, ci fa sciogliere come zucchero nell’acqua. Ci nasconde, ci fa scomparire.
Chi è Desmond Duprè? Un pazzo, un visionario?
Nessuno di questi. Sono solo una persona che sta cercando di nuovo la propria identità, come anche voi dovreste fare. Smetterla con tutto questo digitale, non si digitalizza un sentimento, non si trasmette l’amore attraverso bit o internet. Il mio calore non lo sentirete mai, e la mia voce, non vi arriverà mai così calda, attraverso un qualunque strumento multimediale.
Riconquistiamo questa terra, prima che sia troppo tardi”
Le rivoluzioni, raccontava Duprè, non si fanno in cinque minuti. Ci sono dei bisogni che le fanno nascere.
Che permettono a persone diverse di aggregarsi in base ad una necessità.
“Ecco signori, io penso che noi dovremmo iniziare a farla questa rivoluzione. Necessità di sentimenti, di vivere, di sentire tutto questo mondo, il sole, il vento, il sapore della pasta, l’odore dell’autunno, il calore delle mani.
Voglio combattere contro la solitudine di quest’era digitale, assieme a voi.”
Desmond chiude gli occhi. Poi li riapre.
Trecento posti di fronte a lui lo osservano. Trecento posti vuoti.
Desmond ripiega il foglio in quattro, poi si toglie gli occhiali e li poggia nel taschino.
Il sorriso è scomparso. La fievole luce che lo illumina si spegne con un secco tic.
Nessun applauso, nessun ringraziamento. Lo spettacolo è finito.

Andrea (sdl)
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Tutti zitti (Don’t Let it be, reprise)

(questo come altri è un racconto che si avvale della licenza dell’intero sito. se lo distribuite vi prego di renderne nota la provenienza e di non modificarlo o usarlo per scopi commerciali)

“Silenzio in sala grazie. Ringraziamo il signore per ciò che ci è stato dato e stiamo tutti in contemplazione. Un pò di silenzio è richiesto soprattutto alle ultime file che come al solito tenteranno di chiacchierare ininterrottamente.
E’ un momento difficile signori.”
Il prete si alza dalla sedia, per la prima volta in cinquant’anni.
“E’ un momento complicato. Le sensazioni mi si confondono dentro quando vedo tutto questo. Signori.”
Brusio. Voci che si toccano per aria e poi ricadono a terra in un silenzio contemplativo.
La mano del cardinale tocca ad un tratto un libro posato sulla sedia vuota accanto a lui. Chi è tra le prime file potrebbe, se volesse, notare un tremolio sulle dita. Un tremore non dettato dalla vecchiaia (il vecchio si conserva davvero bene con i suoi settant’anni), ma dal dolore dell’assenza, come se qualcosa di irreparabile sia successo di fronte a loro, proprio ora.
“Voi, dell’ultima fila, avvicinatevi. Ragazzi, non è il momento di far rumore, non adesso. Venite qua”.
Interdetti dall’originale richiesta i soliti otto ragazzi dell’ultima fila si alzano in piedi.
In ordine di comparsa possiamo vedere Tom detto Jones, quello che alle feste è il più divertente il più fico, il più tutto, a detta di alcuni. Alla sua sinistra Janet, l’eterna fidanzata. Girano voci sulla dubbia fedeltà sia di lui che di lei, ma a dirla tutta nessuno in quella sala saprebbe dirvi con certezza se e cosa sia vera.
Nella compagine possiamo poi trovare i fratelli Kay, detti i Tremors. Cinque cambi di scuola in cinque anni. Pare che vogliano comparire nel guinness dei primati, ma Rihanna dice che al più potranno comparire nel guinness dei cretini.
Ed eccola lì anche lei, la contesa Rihanna. Cinquanta lettere sotto il letto, cinquanta no detti a voce, il solito corpo che tutti i ragazzi (e qualche ragazza) si sognano la notte, il solito volto di cui non puoi non innamorarti.
Ed infatti ecco la lettera numero 51. Lo chiameremo Sanders, perchè nemmeno lui sa il suo nome. Orfano tra i tanti ha nella tasca destra dei jeans sgualciti la lettera. Dopo la messa voleva confessarsi, ma non certo al prete.
Accanto a Sanders troviamo la sorellina di Rihanna, Sonia. Piccola ed acerba. Segna sul muro di camera con delle tacche il numero di persone trattate male. Ha smesso ovviamente di contare i rimproveri. Erano troppi. Potrebbe avere anche lei le sue cinquanta lettere sotto il letto, se lo volesse. I suoi capelli nero pece, i suoi occhi così dannatamente verdi la renderebbero forse più bella della sorella. Ma l’attitudine è davvero insopportabile. 
Ultimi in ordine di apparizione i comici Alex e Fray. Non esiste persona al mondo che non abbia riso di fronte a loro. Una volta all’anno organizzano un’intera giornata di scherzi. La JokeFunkyPartyDay. Volevano aumentare il numero di parole ma non faceva ridere purtroppo.

Eccoli lì, tutti ed otto, disposti l’uno a fianco dell’altro. Tom che stringe la mano di Janet (e qualcuno di fronte a loro guardandoli sta proprio pensando se sia finzione o verità). Altri occhi si disperdono su Rihanna, mentre i Tremors stanno ticchettando in maniera piuttosto fastidiosa con le scarpe nuove di zecca.
“Questa proprio non ci voleva. Se ci fanno ora una partaccia confessarsi a Rihanna sarà impossibile”, pensa Sanders. E mentre imbambolato la cerca con la coda dell’occhio uno dei tremors ruba velocemente la sua lettera e se la mette in tasca lui. Numero 51 pare davvero sfortunato.

“Venite ragazzi. Oggi dovrete porgere più rispetto in questa stanza”.
Punizione esemplare, e stavolta non ne può fuggire nessuno. Il prete alza la mano verso gli otto e la muove come a dire “Su, tanto vi tocca venire qua. Poche storie”.
Qualche sguardo si intreccia tra i poveri malcapitati. Poi è Tom che fa la prima mossa. In un silenzio quasi di tomba (ironia della sorte) si muove tra le file della chiesa. Mentre passano gli otto ragazzi ognuna delle persone sedute li guarda, li osserva. Vedono i loro dettagli in maniera tremendamente tragica.
“Guardalo, poveretto, i pantaloni rotti”
“Ma si ameranno davvero? Che tipi falsi”
“Anche lei? La bellissima? Guardala come si è ridotta. E’ proprio vero il detto”
“Stavolta non hanno nulla da ridere neanche loro”
sono pensieri su pensieri che per fortuna i ragazzi non riescono a sentire mentre attraversano il pavimento marmato della chiesa. Il sole fuori fa cadere una lancia di luce nella chiesa. 
E mentre si sentono gli ultimi passi i ragazzi sono lì. In fila di nuovo ma davanti al prete.
Il prete li scorge e li guarda
“Ragazzi, figlioli, il signore vi guarda sempre dall’alto. Guarda le vostre azioni, e dovrebbe guidarvi. 
Ora ditemi, se con una situazione così tragica, così triste…”
alcune persone, dietro di loro, si stringono. Molte mani sono quasi aggrappate alle ginocchia su cui son poggiate. C’è dolore, dolore palpabile nella chiesa. La morte del Panettiere non doveva proprio succedere. Non ora nè mai.
Eppure era lì. La bara aperta, con le ferite nascoste dai vestiti, la morte ingloriosa per amore, per le vite di altri. Una persona che aveva sacrificato se stessa in nome di qualcos’altro. Era un credente, ma non un grande praticante. Eppure aveva trovato quella sua strada per far del bene. Jonathan the Breadman. L’uomo del pane.
Aveva toccato il cuore di molti, e se ora qualche lacrima veniva giù sulle lacrime dei partecipanti non c’era da stupirsi.
“…voi non vi sentite in dovere di concedere un attimo, anche un solo minuto di silenzio a questo uomo? Guardatemi, guardatelo, e guardate nei vostri cuori figli di Dio, e ditemi cosa vedete”

Non che il prete avesse detto qualcosa di sbagliato. Era normale e per giunta perfettamente comprensibile. 
Eppure qualcosa di magico successe. Come in ogni rivolta, una voce si alzò tra le altre, e da lì molti lo seguirono.
Numero 51, Sanders, guardò stupefatto il prete. 
“Padre, io non ci stò.”
il primo passo della rivoluzione che fu, nacque così. con un “Non ci stò”.
Parve alzarsi come una brezza il brusio da tutta la chiesa. Il cardinale, ancora seduto là, non cercava più il contatto sacrale con quel libro, ma ora guardava interessato la contesa, non senza dolore.
“Non ci sto padre” ripetè
“Il silenzio, il dolore, e tutto questo. Non mi va bene. Non dobbiamo considerare il dolore una cosa da commiserare, da ignorare, da lasciar passare come un ignoto accanto a noi. Non può essere così. Non deve essere così.”
Mentre parlava Sanders non si rese conto che la sua cerchia di amici aveva smesso di essere in fila ma bensì lo stava quasi “proteggendo”, sostenendolo con la loro presenza. I petti in fuori, il volto fiero, ed un accenno di sorriso sui loro volti. Eccoli signori, i rivoluzionari. 
“Non dobbiamo stare zitti per paura. E’ morto The Breadman signori. Piangiamo cazzo. Urliamo a Dio quanto diavolo ci manca. Parliamone. Parliamo di quanto era mitico il suo modo di accoglierci. Come quando ti trovava senza ombrello e chiunque tu fossi ti portava a casa.”
Fuori dalla chiesa un barbone che per una notte di pioggia aveva dormito a casa di Jonathan sorrideva e piangeva di fronte a queste parole.
“Questo era Jonathan. Non un silenzio. non un mormorio di persone silenziose. Cazzo no. Non ci sto padre”
E la rivoluzione ebbe inizio. Senza che nulla fu preparato, ma solo con uno sguardo un coro di otto persone contate disse
“Noi non ci stiamo”.

La storia finisce ovviamente qui. Vi sono state risparmiate le pietose scenate dei genitori dei sette e del tutore di Sanders. Vi è stata risparmiata la sconfitta della rivoluzione ed anche il momento in cui Numero 51 scopre di non aver più la lettera, ed in tutto quel casino, con Rihanna che viene allontanata dai suoi genitori trova chissà dove la forza di urlarle “MI PIACI”. E non sapremo mai se fosse corrisposto. Vi siete anche persi l’esilarante momento dei Tremors che leggono ad alta voce, mentre i genitori li trascinano con forza fuori, la lettera d’amore di Sanders. E vi perderete la risata lontana di Ale e Fray, che a porte della chiesa chiuse fece pure ridere qualcuno che pensò “Chissà che diavolo hanno combinato”.
Ed una morale non c’è. Non c’è giusto o sbagliato. Solo due scelte. 
Il silenzio e la parola.

Andrea (sdl)
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Racconti

Il treno

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Questo racconto, come ogni racconto, è pura finzione. In ogni storia c’è ovviamente un filo di verità, o di magia. Sta al lettore scovarla, o credere di averla vista.

Si chiedono se di qua passino mai i treni, se si possano vedere, appoggiati al pendio che porta sulla collina. Se si possano scorgere tra i raggi di luce dell’alba o del tramonto, in quell’arancio surreale che li colora.
Io non li ho mai visti, ma di certo li ho sentiti. La notte, quando mi rigiravo nelle coperte, sentivo quel brusio che da lontano si avvicinava fino a divenire il battito di un cuore di ferro, e poi tornare ad essere rumore indefinito nella lontananza. Mi sono svegliato parecchie volte e spesso ho avuto paura. Paura di diventare di ferro anch’io. O di essere travolto. Sono paure che ti capitano quando sei piccolo.
Sono passati cinque anni da quella prima volta, quella in cui sentii il treno. O forse semplicemente mi avvisò che c’era. Ancora nessuno è riuscito a trovare quella ferrovia. Mi ricordo che quest’estate in città un gruppo di persone si riunì per fare un esposto al sindaco, per lamentarsi dei rumori notturni. Il sindaco scocciato rispose loro in maniera sgarbata. Anche lui non dormiva bene.
E nessuno di loro,
dico nessuno, sapeva come fare. Era quel batticuore alieno che li svegliava la notte, e mezza città non riusciva a prender sonno.
Una notte, decisi di fare un piccolo accampamento per capire se era possibile vedere il treno. Mi misi nel mezzo della salita che delineava la grande collina. Come spesso accadeva c’erano altre persone. Altri che, come me, erano lì per cercare il treno. Si sarebbero anche accontentati della ferrovia, se l’avessero trovata, ma purtroppo era una semplice ed immensa collina verde. Niente di speciale, ad un qualsiasi occhio di questo mondo.
Attaccai la mia tenda fissandola bene al terreno morbido. Era ancora estate e quindi potevo stare con meno vestiti. L’erba sotto di me era morbida ed umida e temevo di sporcare nuovamente i miei pantaloni e venire sgridato dalla mamma quando li avrei portati a lavare, ma poco importava. Se fossi tornato con qualcosa mi avrebbe almeno perdonato.
Attorno alla collina avevano messo qualche luce, ma tutte erano molto distanti tra loro. In questo modo dicevano di voler conservare l’alone di mistero attorno al treno. Secondo me volevano solo risparmiare. In fondo non si era mai vista una collina illuminata. Le altre persone intorno a me parlavano spazientite. Non era la prima volta che capitavano qui di notte, ma stavolta volevano davvero farla finita.
Però, dicevano, ci viene sempre paura.
Chissà come mai, mi domandavo, in fondo un treno è pur sempre un treno. Cosa potrà mai avere di speciale? L’unica cosa speciale era che non c’erano rotaie, e quindi dove passava? Ma tutti, dico tutti, erano sicuri che passasse di là. Il rumore era proveniente dalla collina, e chi c’era stato diceva che era assordante. Non c’erano dubbi. Il treno passava di là.
Fu così che, senza nemmeno rendermene conto, arrivai alle tre di notte, senza nemmeno un briciolo di suono che rassomigliasse il treno. I soliti rumori estivi, qualche macchina lontana, e le chiacchere di questo gruppo di persone che si erano messe a giocare a carte.
Alle quattro non resistetti più, e caddi in un sonno profondo.
Quando al mattino mi svegliai mi resi conto che sarebbe stata una dura giornata: avevo sporcato i pantaloni.

Il giorno dopo decisi di ripetere l’esperimento. La cosa strana è che altri cittadini, quella notte, avevano comunque sentito il treno passare. Quindi non ero mica tanto sicuro che la collina fosse il posto dove cercarlo. Ma, vuoi per l’aura magica della collina, vuoi perchè non sapevo dove altro cercare, ci tornai.
Ammetto che fu complicato convincere mia madre, il cui unico timore non era la mia salute, ma il modo in cui avrei riportato i vestiti. Quindi stavolta mi preparai bene con tanti teli. Piantai nuovamente la mia tenda, e mi misi ad aspettare.

Il gruppo di ragazzi del giorno precedente oggi era assente. Forse arresi all’evidente sconfitta.
Arrivarono nuovamente le tre di notte. Ma stavolta fu diverso. Passarono pochi altri minuti fin quando le luci attorno alla collina emisero una piccola intermittenza, una flessione nel loro modo abituale di risplendere. Subito dopo iniziò il brusio. Sentivo tante voci. Voci di bambini stupiti, di madri che li richiamavano all’ordine, di padri che speravano nel futuro. E poi, finalmente, quel CIUF CIUF, di un treno d’epoca che partiva. Ma ancora nessun rumore del treno che correva sulle rotaie. Era come se stessi ascoltando i dialoghi di un qualche film, senza però vedere nulla. Ero solo sulla collina, e le luci iniziarono nuovamente ad avere quel tremolio, tipico delle stelle. Ogni secondo che passava rendeva quelle luci simili a stelle in cielo, stelle tremanti ma che non cadevano, per fortuna. La terra poi iniziò ad oscillare leggermente in avanti e poi indietro. Era un’oscillazione talmente impercettibile che forse era meglio chiamarla vibrazione.

Un vento si alzò forte da nord. La mia tenda tremava come una foglia in esso. Mi avvicinai per fissarla meglio al terreno, ma una folata la portò via nella notte. Ora si che mi sarei dovuto preoccupare per la ramanzina della mamma.
Non era finita però. O forse finì lì. Il tremolio smise, le luci si spensero, il vento scomparve. Rimasi nel buio pesto in ginocchio, a cercare la mia torcia per capire almeno cosa avessi intorno, noncurante dei pantaloni che ormai si sporcavano sull’erba.
Ero lì, nel silenzio assoluto, in una totale assenza di rumori, di colori, che infine lo vidi.
Prima sentii quel brusio arrivare da lontano. Ma questa volta non erano voci, era lui. Poi, all’orizzonte, due luci iniziarono ad avvicinarsi, e quell’inconfondibile ciuf ciuf si faceva strada. Non c’erano stelle in cielo, l’unica luce che vedevo era quella del treno, e l’unica cosa che percepivo era l’erba sotto le mie mani. Ancora carponi rimasi immobile ad osservare il suo passaggio.

Passava esattamente sopra la collina. Non accanto, non vicino, sopra. Ed era un treno di altre epoche, molto vecchio. Su di esso centinaia di bambini partivano per chissà quale scuola. Sembrava il loro primo giorno. Alcuni piangevano, altri invece lottavano per conquistare il piccolo gioco dell’amico. Erano poveri, o forse appartenevano ad un’era diversa dalla mia.
Il suono fu assordante, staccai le mani dal soffice tocco dell’erba per coprirmi le orecchie finchè l’ultima scia del treno scomparve all’orizzonte.
Appena il treno se ne andò riapparvero le luci, le stelle, ed anche i tipi del giorno scorso, che mi guardavano con aria stupita.
Sarà che erano stati sempre lì, sarà che ormai erano passati dieci minuti da quando avevo iniziato, o sarà stato che lì, in quel momento, ho finalmente iniziato a sognare e loro non riuscivano a capirlo.

Andrea (sdl)

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L’ultima lettera

Tutto quello che avevo da dire è scomparso nella sabbia.
C’erano un tempo dei ricordi, fotografie sparpagliate, ora di loro rimane poco o nulla. Ora di me rimane poco o nulla.
Sopra la panchina il tempo scorre e mi porta via la vita, sopra di me il cielo scorre e mi porta via la memoria. Ed io nel mezzo, ancora a guardare il mondo. Ed io nel mezzo, a sognare.

A Z. veniva sempre da piangere in questi momenti. Era solo di nuovo. Ora guardava il cielo su di una panchina nella fortezza, a firenze. Di fronte a lui il prato circondava in cerchio uno specchio d’acqua. E’ notte, notte fonda nella mente di Z. e fuori il sole di mezzogiorno sembra voler morire su di lui. Appeso ad un filo che perpendicolarmente lo tiene incollato al destino, il sole sembra voler dire “Basta, non ce la faccio più” e Z la pensa come lui. Z ha finito le parole, oltre di lui nessun’altra persona, dentro di lui tutto il mondo ad urlare.

Nella mia vita sono stato tutto e sono stato niente. Perché io ero le persone che vivevo. Io ero il loro benessere, e con questo obiettivo, con questo infantile obiettivo, io sono arrivato a dove sono ora.
Rendere felici gli altri, lo direste stupido?
C’è chi la chiama ingenuità, io lo chiamo amore.
Perchè ci siamo tutti persi nel nostro egoismo per ritrovare la scintilla che ci ha cambiati davvero, od anche solo per scoprirla.

Z non aveva tempo. Era il personaggio di una storia, o forse di mille altre. Z era il ragazzo che attendeva al treno, Z era il barbone che pregava per la strada, Z era il fedele che chiedeva a dio “Perchè?” in chiesa.
Z era tutti e nessuno. Perchè in ogni personaggio c’era quel briciolo d’amore che lui rappresentava. Z era esattamente questo. Non l’alfa e l’omega, non l’inizio e la fine, ma ciò che sta nel mezzo, la parte meno eclatante e più vera della vita.


Cosa dovrei fare ora? Cosa dovrei essere? Il mondo mi rifiuta, non mi accetta e mi deride. Perchè è impossibile osservare un amore così senza abusarne. Mi sento vuoto, perso nel mare delle persone che mi tengono la mano solo per non cadere, e quando cado nessuno si accorge di me.
Guardatemi vi prego, fate che possa vedere la mia luce.

Quello che Z chiedeva era la più semplice delle affermazioni. Quella dell’esistenza. Il suo modo di essere era stato fin ora il contorno di un teatrino a cui però non poteva prendere parte. Z era il sipario sul quale le persone riuscivano a cantare e danzare. E lui sentiva le melodie splendide che riusciva a creare.
Ma poi, quando lo spettacolo giungeva al termine, per lui non vi era neanche una mano che batteva. Per lui solo il silenzio. Solo il buio. Nessun grazie, niente.
E quel buio lo tormentava.
Z è la speranza che perdiamo e che ritroviamo, ma che dimentichiamo di ringraziare. Tutte le volte che la vita ci ha cambiati e le altre mille in cui ci ha aperto gli occhi.
Z è e sarà molto altro ancora, ma sempre nell’ombra. Noi siamo sempre troppo persi dietro ai nostri guai per guardare intorno, per vedere ciò che ci salva la vita, o ciò che la sorprende. Alle volte noi uomini siamo solo piccoli cannocchiali che guardano avanti, incapaci di vedere tutto il paesaggio, ma capaci di arrivare laddove desiderano.

Z esiste in ogni trama o storia, in ogni racconto, Z sono le pagine del libro, le lacrime sulle lettere o su di un cellulare, Z è il tramonto ed una carezza, Z è la natura che ti risponde, Z è l’amore, ma prima di tutto Z è il mondo intorno a noi.

Andrea (sdl)

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Once upon a time

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Alcune volte, non lo nego, mi piacerebbe partecipare (e magari vincere) qualche modesto concorso letterario. Purtroppo però la realtà è sempre un’altra. Vuoi per mia fannullaggine, vuoi per altro, finisco sempre con mille idee in testa e nessuna idea in mano.
Ci sono poi le volte che concretizzo e poi scopro i limiti della mia ignoranza, ovvero le cartelle. Troppo tardi ho saputo cosa erano e quanto troppo avevo scritto. Mi ritrovo quindi con qualche racconto che era nato per morire in un concorso senza troppe speranze. Tenerlo per me non avrebbe troppo senso e quindi ve lo fornisco a voi, sperando possa se non altro darvi da pensare o farvi passare il tempo.

Il concorso era indetto dal quotidiano Repubblica (anzi, da Repubblica.it) ed era un concorso letterario che affrontava l’attuale questione della dipendenza dalla rete. Purtroppo (come ho già detto) il difetto del mio racconto era la lunghezza. E sinceramente non mi andava di accorciarlo.
Pertanto eccovelo qui
Scarica il racconto
il titolo è “Anno 2007

Spero apprezzerete.

Andrea (sdl)